«L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare». Ti ricordi come, in fiorentino stretto, Gino Bartali era solito apostrofare ogni tappa persa della propria carriera?
Oggi, probabilmente, non avrebbe pronunciato quel refrain ormai celebre: arriva infatti dal Museo dell’Olocausto di Gerusalemme il riconoscimento postumo più atteso per il Ginettaccio nazionale, il Giusto tra le nazioni.
Se penso a Gino Bartali, lo immagino da qualche parte a brontolare sulle storture, le contraddizioni dei nostri tempi e magari sulla metamorfosi globale del centro di Firenze. E, senza farlo trasparire troppo, orgogliosissimo dei Mondiali in corso in città. Bartali è stato soprattutto questo: la quintessenza dello spirito fiorentino, incarnata in un fisico da italiano allegro. È stato un collettore di speranza in periodi bui, ricchi d’incertezze e tragedie come d’aspettative.
Un fiorentino cresciuto pedalando per le campagne di Ponte a Ema, in un periodo storico in cui venivano approvate le leggi razziali, che ha costantemente lottato nell’arco di una carriera sconfinata: mantenendo la schiena bassa sulle salite e la schiena drittissima sui propri ideali. Un uomo semplice, sanguigno, schietto, dalle frasi pungenti e mai banali: un degnissimo rappresantante del popolo malapartiano, quello con l’inferno in bocca e il paradiso negli occhi.
Un ciclista formidabile, con le sue imprese pregne di sudore e dolore lungo i versanti alpini e sulle asperità dei Pirenei. Un palmarès da far invidia a chiunque, in tempi in cui la parola doping non esisteva e ciclismo faceva rima con sacrificio, passione e imprese al limite dell’eroico.
Tempi brutali: scanditi dai rastrellamenti, dalle esecuzioni sommarie, dalla GIL, dalle camicie nere e da bombardamenti quotidiani. Tempi in cui, il Ginettaccio, montò in sella alla sua bicicletta dando vita ad un tour personale che lo portò a salvare oltre 600 vite: girando con documenti falsi nascosti all’interno del telaio della propria bicicletta, coprendo tutta la Toscana e gran parte dell’Umbria per due anni. Non fermandosi mai. Sfruttando la sua posizione privilegiata di campione in favore degli altri, degli ultimi.
«Non aspettarmi», diceva Gino alla moglie Adriana. «Non aspettarmi, perché faccio tardi». Dove vai?, gli chiedeva Adriana. E lui: «A fare un lungo», che in gergo significa un allenamento sulla distanza. Oppure: «A trovare un amico». In queste poche battute è racchiuso lo spessore umano di un fiorentino d’antan. Che è riuscito nell’impresa più grande: trascendere la dimensione sportiva, diventando un imprescindibile protagonista della quotidianità di un’intera nazione e del popolo del ciclismo, per definizione privo di limitazioni territoriali.
E poi la fine del conflitto. Da una parte Coppi e dall’altra Bartali: l’Italia dei Don Camillo e dei Peppone, soltanto che i set di questa biografia in bianco e nero su due route erano le strade polverose e tortuose di un’Italia in macerie che ancora non sapeva quale bivio storico imboccare.
E infine il 1948, il Tour de France e un’Italia sull’orlo del collasso civile con l’attentato a Palmiro Togliatti e i disordini, i morti per le strade. La telefonata di De Gasperi a Ginettaccio: esponente ed interprete dei sogni della sponda moderata, cattolica della nazione. E quello che combinò Bartali il giorno dopo, è storia. Leggenda sportiva.
I francesi che s’incazzano, che le palle ancora gli girano. Vince per distacco due tapponi massacranti: vola da solo, libero sull’Izoard. Una salita disumana. In Italia la notizia arriva nel pomeriggio e le manifestazioni, come per magia, si trasformano in cortei festosi. Bartali, con quel naso triste come una salita, ha salvato l’Italia? Forse sì, forse è andata veramente così: una favola sportiva scolpita nei polpacci e sulla fronte di Ginò le Pieux, il Pio, come lo apostrofavano gli snob francesi.
O forse è stata l’ennesima impresa di un fiorentinaccio che oggi raccoglie l’eredità di una vita in salita, tra inesplorate vette e inarrivabili atti di umanità. Questo non lo so. Ma quel che è certo è che con i Mondiali di ciclismo in pieno svolgimento, questa Firenze sembra aver trovato una dimensione più umana, vivibile. Mentre celebriamo Gino Bartali, tra un silenzio che descriverti non saprei.
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