Carlo Monni si è spento domenica notte a Firenze. Se ne va uno degli ultimi toscani di malapartiana memoria.
Carlo Monni lascia la sua amatissima terra dopo una lunga malattia. Carlo Monni era Firenze. E viceversa. In un gioco speculare composto di un’alchimia bizzarra, verace e geniale: semplicemente unica. Come lo spirito guascone, vitale, dissacrante e poetico del Monni.
Chi è fiorentino, avrà molti ricordi a cui appigliarsi in queste ore. Il più celebre è (forse) l’inarrivabile Bozzone di Berlinguer ti voglio bene, un concentrato ad altissima densità del toscanaccio rurale, del sottoproletariato urbano di metà anni ’70: con la miseria in tasca e la poesia in bocca. E il Monni era proprio così: trasparente, fuori da ogni contesto che non prevedesse cultura, sarcasmo, passionalità, tradizione e voglia di vivere.
Potevi vederlo recitare a fianco di Benigni o con la regia di Ferreri, Nuti, Bertolucci e Monicelli; oppure potevi incontrarlo un po’ per caso alle Cascine, mentre faceva la sua passeggiata a petto nudo sulla riva destra dell’Arno. E poco o nulla sarebbe cambiato.
Un personaggio quasi fiabesco: troppo reale per la vita di oggi, troppo poetico per essere reale. Un rapporto viscerale, fisico, al limite dell’erotico con la propria terra e la propria città. Dove ormai ritrovava ben poco di ciò che aveva sempre declamato.
Un campigiano doc, uno spirito libero. Anarchico. Celeberrime le sue caratterizzazioni in film che oggi sarebbero impensabili. Diventate cult e oggetto di venerazione alcune sue battute – spesso improvvisate – che in due frasi sapevano imprigionare l’essenza della toscanità: l’animo di un popolo antico, col Paradiso negli occhi e l’Inferno in bocca. Come il Bozzone che approfondisce e distrugge in venti secondi il concetto di Dio, mettendolo veramente “in difficoltà!”.
Carlo Monni, i’ puntale e un’improbabile e veriteria profezia sulla globalizzazione da Oriente in Benvenuti in Casa Gori; Carlo Monni che vuole morire “come i’babbo!” in Non ci resta che Piangere; Carlo Monni e il Teatro: da Dino Campana a Collodi, una carriera sconfinata e sempre da outsider. Di più: un’estensione della personalità a più livelli.
Carlo Monni che: “Godo di più alla festa dell’Unità a Poggibonsi che al Metropolitan”. Carlo Monni e le trasmissioni di Televacca, in diretta da una stalla in zona Vaiano; Carlo Monni incazzatissimo sul lettino del dottor Pascoski di Francesco Nuti; Carlo Monni e il Garga; Carlo Monni e il sesso, il vino, la poesia, la passera; Carlo Monni e la sua tromba, come un Miles Davis al retrogusto di Chianti rosso; Carlo Monni in giro per i bar del centro cittadino o in qualche angolo buio a cantar novelle di una Firenze che fu: orgogliosissima, acculturata, tradizionale e passionale.
Sarebbero troppi i frammenti, troppe le battute, i lavori e i pensieri da ricordare e consegnare ai posteri. Quel che è certo è che da oggi Firenze si sveglia un (bel) po’ più povera. Piatta. Ma con la certezza che il Monni stesso ci ha regalato: volando oltre, il bruco è diventato farfalla.