La nostalgia di ciò che fu, può essere struggente. Ma quella di ciò che avremmo voluto fosse, che avrebbe potuto essere e non fu, deve essere intollerabile.
Il piccolo Naviglio
Per chi non l’avesse riconosciuto, stiamo parlando di Antonio Tabucchi, classe 1943, scrittore toscano e massimo conoscitore italiano della poesia portoghese del grande Fernando Pessoa.
A trentadue anni dalla prima pubblicazione, Feltrinelli ripropone Il piccolo Naviglio, scritto in realtà nel 1978, secondo (soltanto cronologicamente) a Piazza d’Italia.
In questo libro si muove la vicenda di Sesto, discendente da una famiglia di uomini che si sono sempre battuti per la libertà e che hanno voluto conoscere se stessi fino al midollo. Così fa Sesto: un giorno decide che è giunta l’ora di uscire dalla campana di vetro sotto la quale è vissuto a lungo e di intraprendere il suo viaggio conoscitivo nel mare dell’esistenza.
Abbiamo la Storia con la esse maiuscola, “scriteriata fanciulla che reca festosa lutti e iatture”, quella ufficiale, quella dei grandi eventi e del potere, e la storia minuscola del paese per il quale l’autore continua a nutrire nostalgia, mischiata ad un senso di colpa per una colpa che poi, in realtà, come sempre nei romanzi di Tabucchi, non c’è.
Il rimorso è come l’herpes, ci dice l’autore in un altro libro, esso vive dentro di noi, sempre addormentato ma mai esanime, pronto a saltare fuori da un momento all’altro.
Il protagonista de Il piccolo Naviglio è però tenace, parla della propria vicenda, e cieco insegue quell’idea secondo la quale noi siamo proprio perché ci raccontiamo, e sembriamo cessare di essere quando non riusciamo in ciò.
Storie a galla in un passato composto
Tra i pochi autori italiani spesso (e volentieri) candidati al Nobel per la letteratura, Antonio Tabucchi è uno scrittore che suona le sue storie non con un organo, strumento solenne, proprio delle cattedrali, ma con una umile armonica, sottovoce, un po’ in ombra.
È autore di romanzi, ma la critica ama più definirlo un maestro del racconto. Già, perché Tabucchi esordì proprio così, scrivendo frammenti, pezzi di storie, per arrivare solo molto più tardi ad accorparli in romanzi veri e propri.
Non a caso, ogni suo libro spicca di una qualità unica: ogni capitolo è estraibile dal contesto in cui è intercalato, ogni puntata è una storia a sé stante, cioè avrebbe senso anche da sola, senza un prima né tanto meno un dopo.
In realtà, diciamocelo, nei romanzi di Tabucchi non esiste un vero prima o un vero dopo: il tempo non è mai lineare.
Il presente è il luogo dove il passato ha trovato realizzazione, oppure dove ciò non è mai accaduto.
In quest’ultimo caso, si piange il passato composto: ciò che avrebbe potuto essere e non è, ahimè, stato.
Quadri, allucinazioni e percorsi
Frequenti, nei suoi libri, i rimandi ad opere pittoriche.
Leggetevi Requiem, libriccino del 1992, e lasciatevi trasportare dall’episodio in cui il protagonista s’incanta ad osservare un particolare dell’apocalittico Trittico delle tentazioni di Sant’Antonio di Bosch.
Non stupitevi se poi, proprio quel particolare intravisto in fondo al quadro, prende vita in un altro libro dello scrittore, L’angelo nero, di qualche anno dopo.

Tabucchi è così, usa i suoi libri per costruire altri libri, getta segni qua e là, sperando che il lettore sappia raccoglierli e comporli in un tutto che trova senso forse solo in un ulteriore viaggio, in una ricerca che mai si stanca.