Dopo essere stato presentato a Venezia 68 per la sezione “Controcampo Italiano”, ed essere stato proiettato in anteprima al Cinema Odeon di Firenze, venerdì 21 ottobre esce nelle sale italiane il film “Cavalli” per la regia di Michele Rho. Non potevamo certo mancare alla prima: eccovi dunque la recensione e, a seguire, l’intervista all’autore del racconto Pietro Grossi.
Michele Rho, regista poco più che trentenne, fa della sua opera prima una vera e propria scommessa.
Infatti il suo primo film “Cavalli”, tratto dall’omonimo racconto del fiorentino Pietro Grossi, è stato davvero una sfida. Ha dovuto gestire attori bambini e soprattutto animali.
Il film racconta il rapporto fra due fratelli nella Toscana di fine Ottocento. I due sono molto diversi, uno con la voglia di partire, la curiosità di scoprire, l’altro invece è legato alla terra natia.
Morta la madre, il padre regala loro un cavallo a testa.
Ancora una volta le differenze fra i due emergeranno fortemente; mentre uno diventerà un addestratore di equini l’altro userà il cavallo proprio per andare definitivamente in città e poi in cerca di terre lontane fuori dal confine.
Rho ci regala atmosfere da western (merito anche dei cavalli), costruite attraverso campi lunghi sulle splendide vallate della nostra terra e grazie ai primi piani sugli sguardi degli attori che certo non possono non ricordare quegli infiniti minuti di volti di questo genere.
Considerando il budget low cost e la giovane età del regista si può proprio dire che la scommessa è stata vinta.
(a cura di Lorenzo Dell’ Agnello)
Nato a Firenze nel 1978, Pietro Grossi si è conquistato un ottimo posto nel panorama letterario italiano. Esordisce nel 2000 con “Touché” ma sarà proprio “Pugni”, di cui fa parte il racconto “Cavalli”, che nel 2006 lo farà notare al grande pubblico. Da allora ha proseguito la sua carriera di scrittore con “L’acchito” (2007), “Martini” (2010) ed infine con “Incanto” appena uscito con Mondadori.
Da grande appassionato di cinema, qual è stata la tua prima reazione nel sapere che Michele Rho voleva realizzare, come sua opera prima, un film dal racconto “Cavalli”?
E’ stato chiaro fin dall’inizio che avresti partecipato attivamente?
Ero molto felice che si volesse fare un film da Cavalli: tutti leggendo Pugni pensavano di solito di fare un film da Boxe, il primo racconto, ma a essere sincero secondo me il possibile film più originale e intrigante sarebbe stato proprio Cavalli. Per il resto no, non è stato per niente chiaro che avrei partecipato attivamente. A dire il vero per buona parte del tempo e fino a poche settimane prima delle riprese non era chiaro niente, nemmeno che si facesse il film: mi arrivavano sempre notizie frammentarie, e per interposta persona (un amico produttore, un amico regista). Vari amici mi chiamavano per avere conferma di notizie che avevano avuto sul possibile film di Cavalli e finivano per dirmi loro come stavano effettivamente le cose. Viste le esperienze che avevo avuto in precedenza con il cinema italiano – un monte di chiacchiere e pochi fatti – ero in realtà piuttosto soddisfatto: questa volta nessuno mi diceva niente, ma le cose andavano avanti sempre più spedite.
Mentre scrivevi “Pugni” avevi pensato alla possibilità di fare un film tratto da una delle tre storie?
No, mentre scrivo non penso quasi mai a niente, e forse questa è stata la cosa più dura e utile che ho imparato nella mia attività. Poi però siamo tutti figli del secondo novecento, figli di un secolo di cinema e di grandi storie epiche e via dicendo, quindi in qualche modo i film pesano sempre su ciò che raccontiamo. Come dire: no, non pensavo e non penso mai a un possibile film, ma spesso mentre scrivo mi rendo conto di osservare e raccontare una scena come se fossi dietro al monitor di una cinepresa.
Durante la presentazione del film hai detto di essere contento che Rho avesse fatto suo il tuo racconto: quali sono le differenze maggiori che hai riscontrato tra il tuo e il suo “Cavalli”?
Be’, la prima e più evidente, che già mi aveva in un primo momento scosso mentre leggevo la sceneggiatura, è che i due protagonisti non sono più dei ragazzini di 16 anni, ma uomini di 25. Questo ovviamente era dato anche dalla necessità di avere attori professionisti (ndr Vinicio Marchioni e Michele Alhaique) su cui poter poggiare un film così difficile. Mi ha molto divertito – e anche un po’ commosso – vedere i miei due ragazzi cresciuti: anche se molte delle cose che fanno nel film sono le stesse che fanno nel racconto, è stato come ritrovarli ormai uomini. Michele li ha come seguiti nell’età adulta e si rimesso lì con la sua telecamera a osservarli, nello stesso modo in cui io li avevo osservati da ragazzini, e – come un padre un po’ nostalgico – confesso che mi è piaciuto vedere cossa erano diventati.
Cos’è che ti ha spinto ad ambientare questo racconto nell’ Ottocento? Si tratta di una scelta puramente narrativa o di una critica alla contemporaneità?
Nessuna critica, e a dire il vero nemmeno alcuna contestualizzazione. Nel film, per ovvi motivi (abiti, mezzi di locomozione, immagini in generale) si è dovuta prendere una scelta sul tempo in cui ambientare la storia, ma nel racconto non c’è alcun riferimento di spazio o di tempo. La storia potrebbe essere in qualunque tempo e in qualunque luogo con colline e montagne: nella prima stesura c’era qualche riferimento in più, ma nella versione definitiva decisi di togliere tutto e lasciare questa storia sospesa in un non-luogo che a suo modo divetasse assoluto. Ovviamente nel cinema questo si può fare entro certi limiti, ma Michele ha deciso di provarci lo stesso ed ha fatto un gran lavoro, è uno degli aspetti coraggiosi del film che mi intrigano molto.
Tornando al presente, parlaci del tuo ultimo romanzo “Incanto”
Mi riesce sempre molto difficile parlare a braccio delle cose che scrivo: diciamo che Incanto è la storia di tre o quattro amici attraverso vent’anni, dal luogo in cui crescono – un paesino della bassa Toscana – fino a New York, dove il narratore finirà a insegnare astrofisica e dove, nell’ultima parte del libro, avrà con uno degli amici un lungo e duro confronto. La parte centrale del libro invece è soprattutto ambientata in Scozia, a Glasgow, dove il narratore va a studiare e dove in qualche modo inizia a diventare adulto.
Rileggo queste quattro righe e ho il dubbio che non si capisca niente: ve l’ho detto, mi sa che non sono tanto bravo a parlare dei miei libri.
(A cura di Francesca Golini)