Intervista a Leonard Bundu. Il 4 novembre affronterà sul ring Daniele Petrucci per il titolo europeo dei pesi welter.
Bundu è nato in Africa 36 anni fa. Esattamente in Sierra Leone. Nella Stessa Sierra Leone di Blood Diamond con Leonardo Di Caprio e – in parte – di Amistad del regista Steven Spielberg.
Ma Bundu di quella terra può solo ricordare la guerra civile, i colpi di Stato, la violenza.
In questi luoghi si impara presto a diventare adulti. Si impara presto a difendersi e ad attaccare. Proprio come fanno i pugili.
Lo abbiamo incontrato pochi giorni fa prima di un allenamento. Una chiacchierata veloce seduti sul bordo del ring.
Come te la passavi a Freetown?
Ero un ragazzo vivace, per usare un eufemismo. Facevo parecchio casino con i miei amici. Si andava in giro per la Sierra Leone. Avevo una panda bianca. Guidavo io, anche se avevo 14 anni. Ho iniziato a guidare presto, sai?
Già facevi sport?
Mi sono sempre piaciute le arti marziali, gli sport duri, da combattimento. Conoscevo a memoria i film di Bruce Lee. Ma niente sport. Ricordo solo che ce le davamo tra amici. Eravamo parecchio agitati. L’ho già detto? (ride).
Quando sei arrivato a Firenze?
Dopo le medie, chi aveva parenti all’estero andava via dalla Sierra Leone per continuare gli studi. Anche per me è andata così. A 16 anni ho fatto le valige e sono venuto a Firenze, dalla mia famiglia, per continuare gli studi, ma la scuola l’ho mollata presto.
Come sei finito nel mondo della pugilato?
Sono sempre stato affascinato dagli sport da combattimento, come ti dicevo. Il caso ha voluto che a Firenze abitassi nei pressi di una palestra di pugilato (Accademia Pugilistica Fiorentina di Campo di Marte ndr). Mi iscrissi per sfogare tutta l’energia che avevo dentro. E la rabbia. Ma ero anche in cerca di amici. Non conoscevo nessuno in città. La palestra è stato anche un modo per trovare degli amici.
Ti ha insegnato qualcosa?
La boxe, secondo me, è adatta a chi ha necessità di controllare la propria energia, la propria rabbia, la propria forza. La boxe è un sistema di regole.
Lavorare, sudare, sputare sangue ti permettere di sentirti più sicuro sia sul ring che nella vita.
Il pugile ha un sistema di valori, dunque
La boxe è senso di lealtà, rispetto per l’avversario e per i compagni. La palestra è una famiglia e l’allenatore è un padre, una guida. E’ il tuo centro dentro e fuori il ring.
Se domani tuo figlio ti dicesse che vuole fare il pugile, cosa gli diresti?
Nessun problema. Anzi, non smetto mai di consigliarlo a tutti. E’ una scuola di vita. Anche se è uno sport duro e faticoso. Certo, quando ti approcci a questo sport devi essere consapevole che è anche una disciplina dove non si diventa ricchi. Sopratutto oggi. Sono pochi quelli che riescono a vivere di questo mestiere. Non è come il calcio. A mio figlio cercherei di far capire innanzitutto questo. Per il resto, ripeto, no problem.
Oggi a te e Petrucci tocca il compito, oltre che di vincere, di riaccendere l’interesse per questo sport. Che ne pensi?
L’italia ha avuto i suoi momenti di gloria. Fino agli anni ottanta, direi.
Ora manca un vero campione. Forse prima c’era più fame, più voglia di farcela. Più passione. Non lo so. So solo che c’era più gente in palestra, e quindi la possibilità che venisse fuori un campione era più forte. Oggi i ragazzi preferiscono stare a casa con la mamma e il babbo.
Però a Roma c’erano 10mila persone…
Si! Gli organizzatori hanno fatto un gran lavoro. Tanta pubblicità. Sono stati bravissimi. Poi erano 50 anni che due italiani non si incontravano per un titolo così importante. Spero che a Firenze ci sia più gente che a Roma.
Ti senti fiorentino?
A Firenze mi sento a casa. Conosco tutti e tutti conoscono me. A Freetown sarei uno straniero oggi.
A chi dedicheresti la vittoria?
La lista è lunga. Sicuramente ai miei figli e a mia moglie. E poi alla mia famiglia e ai miei amici, soprattutto a quelli che non ci sono più.